• Corse di questa settimana :3
  • Cani incrociati: 0
  • Cani che hanno attentato ai miei polpacci: 0
  • Biciclette sul marciapiede: 2
  • Scontri evitati: 2
  • Monopattini: 1
  • Scontri con altri runners: Infiniti.
  • Scontri con (New Entry) passeggini: 1000

Correre è irrazionale. Eppure, lo faccio da oltre 10 anni con la media di 3 volte a settimana. Estate e Inverno.

Come può essere razionale una cosa che fa soffrire dal primo all’ultimo metro?

Il giorno dopo una maratona sei costretto a camminare come un gambero. Esaustivi i video che circolano in rete. Esilaranti, crudi e reali. Ricordo che il lunedì post maratona di New York 2015 ci siamo regalati una giornata di shopping sulla Fifth Avenue. A metà pomeriggio, terminati i miei acquisti mi sono seduta sui gradini all’ esterno del megastore in cui avevo lasciato metà del mio stipendio mensile nell’attesa che il resto degli amici uscissero e inconsapevolmente ho commesso il più grosso errore che potessi mai fare da neo-maratoneta: sedermi.

Eccolo lì, il temutissimo DOMS. ndr: (Delayed Onset Muscle Soreness: indolenzimento muscolare ad insorgenza ritardata)

Correre per il piacere di farlo e senza obiettivi e stress | Diario di una runner

Tanto era il dolore alle cosce e ai polpacci che non sono più riuscita a rialzarmi. Ad ogni movimento avevo la sensazione che un branco di carlini con i dentini aguzzi stessero attaccati alle mie gambe.

Gli amici hanno dovuto letteralmente sollevarmi di peso per rimettermi in posizione eretta.

Credo sia stato il (o uno dei) momento più imbarazzanti della mia vita oltre che incredibilmente fastidioso a livello fisico. Però ero così fiera e felice della mia “medagliona“ appesa al collo che ho affrontato la situazione con grande dignità seppure non avessi alcun potere decisionale sul mio corpo.

Perché farsi del male? Soprattutto perché continuare a farsene?

Una volta vissuto il pre e il post maratona perché replicare per altre nove volte e mezzo? La mezza e la famosa Monza Resegone mai finita.

Forse perché per quei pochi minuti in cui tagli il traguardo riesci a toccare il cielo con un dito e la felicità provata è immensa. E questo è sicuramente un ottimo motivo per soffrire ancora, al punto di volermi cimentare in una 50k. Sicuramente non può che essere amore.

La scintilla è scoccata subito alla mia prima gara: la Staffetta della Milano Marathon del 2012 a favore della Fondazione PUPI.

Il mio cambio era ancora ai Bastioni di Porta Venezia. Quel giorno diluviava che neanche il giorno in cui Noè ha costruito l’Arca scendeva così tanta acqua dal cielo.

Ricordo che io e gli altri staffettisti all’attesa dei nostri compagni di squadra, facevamo a turno per ripararci in una cabina telefonica fuori dal parco. Una delle pochissime ancora esistenti e soprattutto agibili.

Ho aspettato due ore, per ben due ore sotto il diluvio universale prima che la mia compagna mi raggiungesse per il cambio. A causa di un problema alla caviglia ha dovuto camminare per oltre 8 kilometri della sua tappa. Fortuna che era la frazione più breve.

Ricordo solo che sui Bastioni eravamo rimaste forse in 5 persone ad aspettare sotto la pioggia. In piazza Duomo subito dopo il mio passaggio, hanno iniziato a togliere le transenne e liberare le strade. L’arrivo era in Piazza Castello. Molto sconfortante, ho odiato ogni singolo minuto e mi sono maledetta per aver accettato di correrla, ma sono arrivata alla fine come un soldatino, ho portato a termine il mio compito. Ho odiato la corsa.

L’anno successivo, o forse quello dopo, hanno modificato il percorso. Partenza e arrivo ai Giardini di Parco Palestro. La mia zona cambio per quell’anno e per quello successivo sarebbe stata Via Vittor Pisani. Una strada larga, dritta, pratica e soprattutto con possibilità di riparo in caso di pioggia.

Inutile dire che un diluvio simile non l’ho mai più visto, anzi al contrario, ho sempre patito il caldo nelle staffette a seguire.

Nell’attesa in Via Vittor Pisani mi mettevo a bordo strada, chiusa nell’area riservata al mio pettorale in attesa del compagno di squadra che mi desse il cambio. Da lì, protetta nel mio mondo, riuscivo a respirare la competizione e l’atmosfera di un qualcosa di grande che stava accadendo intorno a me e soprattutto a guardare la corsia in cui sfrecciavano i maratoneti. Li ammiravo con occhi sognanti e pensavo che, forse, chissà, un giorno anche io avrei avuto il coraggio di cimentarmi nella gara dei 42.195 metri.

Mi ci sono voluti altri tre anni prima di coronare il mio desiderio.

Alla fine, è tutta una questione di testa. Preparazione, motivazione, masochismo e testa. Sacrificio e sofferenza.

La prima maratona è stata la più bella in assoluto. New York 2015.

Anche la preparazione è andata via liscia alla fine.

Inconsapevolezza.

Del resto, se non sai cosa ti aspetta, vivi tutto in maniera tranquilla e serena. Se il Coach ti dice corri, tu corri.

Non importa se sono 10, 15, 28 o 36. Tu li fai perché sei curioso di sapere che cosa succede dopo.

Come ti senti? Bene. Ti piace la sensazione data dalle endorfine che fa dimenticare.

Piace meno quello che provi mentre fai fatica, al caldo sul Naviglio, quando guardi il Garmin ogni secondo e non passano più i metri.

Più lo guardi, meno passa, più fai fatica. E non ti passa davvero più.

Poi quando schiacci Stop sul quadrante, tutto passa e non vedi l’ora di ricominciare.

Perché pensi che alla fine “cosa vuoi che sia? Basta mettere un piede di fronte all’altro”.

Solo più tardi realizzi che il giorno dopo fai fatica a camminare, devi fare i conti con le vesciche, le unghie nere che a volte cadono, cambiare le priorità, le abitudini alimentari, rinunciare all’alcool, ri-focalizzare le vacanze se per caso la tabella prevede un “lungo” nel mese di agosto.

Spesso mi chiedo se davvero ne valga la pena. Spesso la pigrizia prevale e anziché uscire a correre mi spalmo sul divano, convinta dalla mia presunzione che “tanto cosa vuoi che sia mettere un piede avanti all’altro per 42.195 metri? Esco domani e non cambia nulla”.

A volte la testa non basta. Ma di sicuro aiutano i ricordi di quando ti senti sul tetto del mondo. Quel senso di irrazionalità folle di cui alla fine non riesci più a fare a meno.

Ed è di nuovo amore.

Infinito, incondizionato, irrazionale amore per la corsa.