Abbiamo avuto l’onore di partecipare al ristretto incontro stampa con Wes Anderson per parlare della sua ultima opera, The French Dispatch.

Grand Hotel et de Milan, ore 9.55. Si avvicina l’ora X, quella in cui Wes Anderson, uno tra i registi più innovativi e geniali degli ultimi 20 anni, varcherà l’ingresso dello storico albergo di via Manzoni per incontrare un selezionato numero di giornalisti stranamente puntuali (noi compresi). Il giorno prima abbiamo visto in anteprima il suo ultimo capolavoro The French Dispatch e lui, che ha disertato la conferenza stampa di Cannes, stavolta dicono che arriverà, e infatti…

Wes Anderson regista: chi è, film da vedere, stile e curiosità

Entra quasi timidamente nella piccola stanza adibita a sala conferenza. Saluta i presenti con un piccolo cenno del capo e poi si accomoda, lasciandosi osservare curiosamente: completo Bordeaux in velluto con camicia bianca da smoking allacciata fino al penultimo bottone, calzini rossi e mocassini rosa. Praticamente l’incarnazione dell’estetica che lo ha reso tanto amato dal pubblico: ogni dettaglio del suo abbigliamento comunica un prioritario bisogno di esplorare confini oltre la banalità.

Il mediatore della conferenza rompe gli indulgi e si parte con la prima domanda.

Wes Anderson incontra la stampa a Milano per parlare del suo ultimo film: The French Dispatch

“The French Dispatch” è stato definito come una lettera d’amore ai giornalisti. Qual è il suo rapporto con la carta stampata? Una delle ispirazioni per il film è stato il mio amore per il New Yorker. Lo leggevo quando ero ragazzino e poi ho iniziato ad interessarmi alla storia del giornale stesso, delle persone che animavano la redazione e delle loro storie. La prima cosa che mi ha attratto sono stati racconti brevi che all’epoca venivano pubblicati all’inizio della rivista, racconti di fantasia. All’epoca la narrativa era il focus e non le notizie. Questa pellicola, tra l’altro, è stata presentata come un film sul giornalismo, ma in realtà si tratta di storie immaginarie, parla del giornalismo ma non è giornalismo.

Il film è stato girato in Francia, come mai ha scelto Angoulême? Volevo girare in Francia perché di fatto volevo girare un film francese, volevo avere per lo più un cast francese. Con la produzione ho girato la Francia cercando una piccola cittadina con una storia, dove potessimo stare a girare il film in tranquillità rimanendo direttamente sul posto: Angoulême è servito come una specie di fondale, siamo riusciti a trasformare degli angoli della città nel set che ci serviva. Siamo anche riusciti a costruire da zero alcuni set, ma la cosa principale è che quando avevamo bisogno di qualcosa, i cittadini erano subito pronti ad aiutarci. Ma non solo, abbiamo utilizzato diversi di loro come comparse del film. Questo tipo di contesto permette di concentrarsi al massimo sul film senza distrarsi, si lavora come nei film di una volta.

THE FRENCH DISPATCH. Photo Courtesy of Searchlight Pictures. © 2020 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

Il film è una lettera d’amore al giornalismo e alla carta stampata. Qual è secondo lei il ruolo della carta stampata oggi nella civiltà di internet, in cui molti rinunciano al quotidiano per leggere le notizie sul web? È interessante questa domanda ma prima vorrei precisare che non ho mai definito il mio film come una lettera d’amore al giornalismo, sono le persone che lo hanno interpretato in tale maniera. Alla fine del film c’è una lista di alcuni degli scrittori che sono stati d’ispirazione per il film: quando faccio un film non si tratta di fare un omaggio a qualcuno, di mostrare rispetto nei confronti di qualcuno da cui ho imparato qualcosa o che ammiro (anche se ovviamente sono sentimenti che provo). Per me è talmente evidente il debito che ho nei confronti di queste persone che proprio per evitare una potenziale accusa di plagio rendo molto evidente la fonte della mia ispirazione, come se facessi una nota a piè di pagina. Non si tratta né di un omaggio né di un richiamo al lavoro altrui, ma proprio banalmente si tratta di rubare qua e là, ovviamente riconoscendo l’origine di questo materiale, per migliorare il mio film e per arrivare ad un risultato che spero sia il migliore possibile. Per quanto invece riguarda il mio rapporto con la carta stampata, per me è una straordinaria tradizione al quale sono molto legato (compro e leggo almeno un quotidiano ogni giorno). Questo film si concentra su quel tipo di giornalismo che ormai sta scomparendo: cerco di creare un’esperienza su un argomento di mio interesse senza però che vi sia un’identificazione specifica in tal senso. Usa tutto quello che ha potuto imparare per creare delle storie.

The French Dispatch: le immagini più belle del film di Wes Anderson

Parla molto del rapporto fra la cronaca e la sua rappresentazione, nell’era del web dove tutti possono diventare protagonisti ed inventori di storie, come vede il rapporto fra la realtà e la sua rappresentazione? C’è più realtà oggi che tutti possono raccontare le loro storie o allora che i giornalisti le raccontavano a loro modo? Sappiamo che c’è una lunga tradizione di giornalismo e di direttori di testate che volevano creare false notizie per vendere meglio i loro giornali. La mia storia cerca piuttosto di evidenziare il ruolo di un direttore di un giornale che invece è impegnato ad assicurarsi che la pubblicazione rappresenti in maniera corretta la realtà. Facendo rispettare delle norme per quanto riguarda il lavoro dei giornalisti e anche mettendo insieme un certo numero di giornalisti e scrittori per creare un senso di appartenenza ad una squadra. È chiaro che oggi quando vengono raccontate delle notizie, delle storie, spesso le informazioni vengono comunicate senza che vi sia una qualsivoglia forma di mediazione: questo significa che è possibile che vi siano delle notizie che in realtà non hanno un fondamento della realtà, sono disinformazione. Non esiste più una figura di intermediazione. Questa è la realtà odierna, una volta non era così e io preferisco, come è facile immaginare, il passato.

Wes Anderson
Wes Anderson

Lei ci ha abituati ad una vera e propria estetica nei suoi film. Come mai ha deciso di usare il bianco e nero? Per quanto riguarda il bianco e nero, in realtà il mio primo lavoro, un corto, era proprio in bianco e nero. Poco tempo fa mi è proprio capitato di avere una conversazione con un regista riguardante il bianco e nero e i diversi formati in cui vengono realizzati i film. Si tratta di un regista che ha realizzato almeno una ventina di film e mi ha detto che se fosse per lui utilizzerebbe sempre e solo l’Accademy Format (quello quadrato, per intenderci) e il bianco e nero: l’immagine in questo modo viene semplificata, è una garanzia di bellezza perché il mezzo di per sé è bellezza. Non è questa la mia posizione, tendo a passare dal bianco e nero al colore, cambiando anche il formato dello schermo a seconda delle mie esigenze. Facendo un esempio pratico: c’è un momento nel film in cui per me è stato evidente che la scelta dovesse per forza essere il bianco e nero. Si tratta della sequenza con Adam Brody, Benicio Del Toro e Léa Seydoux: quando ho iniziato a girare questa scena avevo in mente l’attore Michel Simon, che ovviamente non ho mai visto a colori. Per questo automaticamente quella scena nel carcere doveva essere in bianco e nero. in altri casi invece, ho preferito optare per il colore. Questo porta a riflettere sull’uso della luce: sappiamo bene che ci sono alcuni compiti particolari legati all’utilizzo del colore piuttosto che all’uso del bianco e nero. Un oggetto, su un determinato sfondo, può non risaltare e bisogna quindi intervenire per rendere l’immagine più chiara. È stata una gioia poter utilizzare, insieme al direttore della fotografia e allo scenografo, una tipologia di colore piuttosto che un’altra. Facendo un altro esempio, in una delle scene di Tilda Swinton, quella della conferenza, era importante distinguere le parti dedicate alla storia che viene raccontata da quelle in cui lei la raccontava. La scelta dipende quindi dalle mie preferenze, da quello che penso possa funzionare meglio per un particolare momento del film. È chiaro che si programma in anticipo, ci si riflette sopra, però poi dipende tutto dal momento: è come un artista che deve scegliere il giusto pennello da utilizzare.

Lei è cambiato molto nel tempo, che cosa è rimasto di quel ragazzo che ha girato Rushmore? Quale sarà la tappa del suo prossimo film? Ci sarà anche l’Italia? Questo è un film francese ma l’ispirazione nasce da un film italiano, “L’oro di Napoli”, di De Sica. Quando ho visto quel film ho deciso di realizzare qualcosa di simile, che raccogliesse diverse storie insieme: questo modo di fare film è tipico italiano, tale tipo di antologia lo ritroviamo anche in molti altri registi italiani, Fellini, Visconti, Pasolini e tanti altri. Quindi in realtà questo film nasce dal cinema italiano. Non solo so già cosa farò in futuro, ma ho appena finito di girare il mio prossimo film appena due settimane fa: è stato girato in Spagna ma è ambientato in America, ed è stata davvero un’esperienza divertente. Tornando all’Italia, ho già lavorato qui per “Le avventure acquatiche di Steve Zissou”, girato in parte a Cinecittà e per il quale anche Miuccia Prada ha collaborato. Amo moltissimo l’Italia e ogni volta che penso ad un nuovo progetto cerco di trovare un modo per tornare a Cinecittà, ed è sicuro che ben presto ci riuscirò. Ormai i miei film sono sempre girati all’estero, ma all’inizio non era così. Ho lavorato infatti in Texas, Rushmore è proprio stato girato nei posti dove sono cresciuto. Oggi giro il mondo per fare cinema e il vantaggio è che quando lavoro su un film, non so come, subito nasce l’idea per quello successivo. Ogni mia esperienza mi conduce alla successiva. Questo mi permette anche di avere una troupe con persone provenienti dai paesi più diversi, ed è proprio questo che la rende un’esperienza ancora più istruttiva. Facendo un altro esempio: esiste una scatola, detta Apple Box, che è diversa in ogni paese. Nel cinema vengono spesso utilizzate magari per alzare una sedia in modo che venga meglio in un’inquadratura, o per alzare un attore: da 75 anni a questa parte nel cinema francese ne hanno realizzata una molto particolare, con diversi tipi di agganci. Da quanto l’ho scoperta utilizzo esclusivamente quella, e questo non sarebbe stato possibile se fossi rimasto a girare in America.