amare se stesse

La corsa non risolve i problemi, ma aiuta a trovare la via per uscirne.

La corsa da quasi 10 anni fa parte della mia vita.

Il mio sfogo, il mio punto fermo, la mia consigliera, il mio mantra nei momenti difficili.

Grazie alla corsa ritrovo il sorriso. La corsa non delude mai, a volte ti massacra ma poi ti senti rinato ogni volta e non vedi l’ora di ricominciare.

Prima era la scusa per trascorrere tempo con papà, la sera dopo la scuola e successivamente dopo il lavoro.

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Da quando ho deciso di vivere a Milano la corsa è il mio modo personale di pianificare la giornata prima di andare in ufficio la mattina all’alba oppure l’escamotage per buttare lo stress di certe giornate alle spalle la sera dopo il lavoro.

Prima del COVID, prima del cancro. Prima della Nuova Me.

Il giorno in cui mi hanno diagnosticato un tumore al seno con 12 cicli di chemioterapia e 28 di radio, avevo un solo pensiero fisso, anzi due, avrei perso i miei meravigliosi capelli lunghi e non avrei più potuto correre per chissà quanto tempo.

Inaccettabile per me.

La mia Maratona di Londra di pochi mesi prima, non era andata benissimo, ora capisco anche il perché, avrei scoperto a breve che dentro di me avevo un ospite indesiderato di cui non vedevo l’ora di liberarmi.

amare se stesse

Ma la strada sarebbe stata lunga. Parafrasando, luna come una Maratona, che per la verità poi si è rivelata una Ultra Maratona della quale però ho tagliato orgogliosamente il traguardo.

Ho fatto un patto con papà il giorno prima di iniziare la chemioterapia. Lui avrebbe dovuto accertarsi che vicino al letto ci fossero sempre le mie scarpe da corsa a farmi da incentivo nei momenti difficili, mi avrebbero spinto a non mollare, a stringere i denti proprio come in maratona o in allenamento, ad affrontare quello che avrei dovuto diligentemente e senza lamentarmi.

Un metro alla volta, un piede davanti all’altro fino al traguardo. Ci sono stati giorni in cui avrei voluto mollare, giorni in cui la stanchezza era talmente forte da trascinarmi verso il letto o il divano, perfino allacciare le scarpe era un ostacolo insormontabile. In quei giorni, anziché corsa era la camminata in centro e quando anche quello diventava troppo faticoso per il mio corpo, era il giro del palazzo.

Al terzo ciclo di chemio stavo così bene che mi sono lanciata in una corsa di 12 kilometri in giro per la mia città. Le due ragazze olandesi che erano con me non sapevano nulla di quello che stavo vivendo, inconsapevoli mi hanno seguito a fatica, loro, io correvo come una pazza, ero felice. Finalmente sentivo di essere tornata me stessa con le mie scarpette ai piedi, libera di correre tutti i kilometri che volevo. Quelli necessari per scrollarmi di dosso tutto quello che di brutto avevo accumulato fino a quel momento.

Due giorni dopo avevo 39 di febbre. Quando l’ho raccontato al mio oncologo quasi cade dalla sedia.

Dopo una bella ramanzina da quel giorno all’Istituto dei Tumori mi hanno chiamato LA MARATONETA. Tutt’oggi quando mi vedono per le viste ed i controlli di routine mi chiedono “Come va la corsa?”.

Ricordo che anche in sala operatoria ho parlato di corsa e della maratona che avrei corso a novembre 2020. Il mio Chirurgo ad un certo punto ha guardato l’anestesista e da sotto la mascherina ha borbottato: “Se non la addormenti subito, rischiamo di correre tutti a NEW YORK L’ANNO PROSSIMO”. Non ricordo più nulla, so solo che la mattina dopo mi hanno dimesso e sono tornata a casa con i miei drenaggi e le scarpe da running ai piedi.

 

Il mio tempo di ripresa è stato incredibilmente veloce. Sapevo chi o cosa ringraziare.

Finalmente libera dall’ospite che per mesi mi ha prosciugato l’ energia e le forze ma mai l’entusiasmo, la passione e la gioia di correre anche se per pochi metri.

E’ passato un anno da quel giorno, oggi lo posso dire, sono guarita.

Corro regolarmente, come e anche più di prima. Ho un obiettivo, tornare a correre con gli stessi tempi di prima del “fattaccio”, anzi arrivare a correre ancora più veloce di prima, non smettere di divertirmi e tagliare ancora tanti traguardi di maratone in tutto il mondo.

Si chiama resilienza. Quella che noi sportivi, che noi maratoneti conosciamo bene.

Noi che in quei 42.195 metri viviamo tutto quello che persone normali non vivono in una vita intera.

amare se stesse

Gioia, incazzature, dolore, lacrime, fatica.

Ma quando tagli quel traguardo sei sul tetto del mondo. In quel preciso momento ti rendi contro che tu puoi tutto e che il regalo migliore che puoi farti è proprio quello di iniziare a correre e continuare a farlo regolarmente e sempre più forte.

Anche dopo una battaglia, dopo una sconfitta, dopo una malattia, una incazzatura in ufficio o anche solo per emozionarti all’alba mentre il tuo corpo sudato e dolorante ti ringrazia.