Maratona di Edimburgo

La maratona non è uno scherzo, non lo è mai, non la si improvvisa, neanche se ne hai corse altre 7 prima. Al contrario, sai perfettamente cosa succederà e cosa proverai ad ogni singolo chilometro. I crolli, la fatica, i ripensamenti, l’euforia. La migliore è stata quella di New York, non solo per la località fantastica e per il tifo unico che ti accompagna per tutto il tragitto, ma per l’inconsapevolezza totale di quello che stai per fare.

Di Edimburgo me ne sono innamorata durante le vacanze di agosto e non trovo modo migliore di dimostrare tutto il mio amore ad una città fantastica che non sia quello di correrci una maratona.

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Ma nella vita l’uomo propone e Dio dispone. Così dopo un’ influenza che sembrava infinita trascinata tra una fiera di Pitti Uomo e una di Pitti Bimbo, presentazioni uomo e donna, il caldo/freddo degli allenamenti e delle sfilate, un weekend alla ghiaccio a Manchester per il training 261FearlessClub e una settimana di 39 di febbre, era inevitabile che l’allenamento e le tabelle andassero a farsi benedire e con loro la mia voglia di correre.

In inverno è dura uscire a correre, il buio, il freddo, il caldo del letto, gli impegni di lavoro e allora rimandi l’allenamento al giorno dopo, alla sera dopo il lavoro, al fine settimana, finché “ma si dai ne salto uno tanto cosa vuoi che sia”.

E alla fine i chilometri che non metti nelle gambe li paghi durante la maratona. Tutte scuse e quando inizi a trovare sempre una scusa per non correre allora capisci che il tuo corpo e purtroppo la tua testa ti stanno lanciando dei segnali neanche tanto velati.

La testa è il motore di tutto, il Deus Ex Machina che muove ogni cosa, che ti toglie la pigrizia, il torpore, la non voglia di allenarti, la testa è quella che ti porta al traguardo della maratona, che ti mette in uno stato di estasi mistica in cui non senti più nulla; corpo, dolori, anima, diventano tutt’uno e ti muovi fino ad arrivare a tagliare il traguardo ad ogni costo.

A Edimburgo durante la mia maratona, mi sono ritrovata a correre un pezzo di percorso con due amici italiani conosciuti nel caos della maratona. Uno dei due, correva in maniera fluida, testa bassa e gridava a cadenza regolare al compagno dietro di lui: “Non mollare non fermarti.  La testa, è la testa, è solo una questione di testa …. Manca poco alla fine, resisti ”. Dietro di lui, l’amico visibilmente in crisi, pallido, che trascinava i piedi e seguiva il suo compagno di avventura. Li ho visti allontanarsi mentre io mi sono fermata al punto di ristoro a mangiare caramelle offerte dai bambini e a bere una bottiglietta di acqua con estrema calma.

La mia di testa aveva mollato già da un po’, cosi mi sono fermata, ho camminato un pochettino, ho rifiatato e sono ripartita e grazie a Paola e Gianluca che mi hanno letteralmente portato al traguardo per mano. Tagliare il traguardo con loro al mio fianco è stata una emozione incredibile che mi ha ripagato di ogni singolo sforzo.

Grazie a loro non mi sono accorta della salita, dei 42 chilometri che non avevo ovviamente nelle gambe, del vento contro e di tutti i dolori che oggi a distanza di tre giorni sto ancora contando.

Schiena, gambe, polpacci, spalle. Però i piedi sono intatti, nessuna vescica o taglio o unghie nere.

Qualcosa nella preparazione delle altre 7 maratone ho imparato.

Fino all’incrocio con Gianluca e Paola ho corso la maratona da sola in una Edimburgo grigia di nebbia e nuvole, pioggia e freddo dell’attesa della partenza bardata nel mio piumino. Allo sparo dello start ho iniziato la mia galoppata con calma, ho perso quasi subito il gruppo, intenta nel guardarmi in giro e assaporare ogni singolo metro e persona che ha fatto il tifo per me con sorriso ebete, come sempre quando sono in terra UK.

E mentre mi allontanavo dal centro di Edimburgo dopo aver perso i gel (sostentamento direi quasi vitale per chi corre 42 chilometri), un flash mi passa per la testa…. “ma io non ho voglia di correre per 42 chilometri…” “ahia, se già inizio a pensarlo quando non siamo ancora a 10 chilometri, è inevitabile che oggi sarà durissima”

Penso ripenso, faccio calcoli tra miglia e chilometri per distrarmi dai miei pensieri nocivi ed ecc …. Meraviglioso l’arrivo fronte mare all’orizzonte, grigio, agitato, in tempesta, un paesaggio che mi toglie il fiato, l’ odore di iodio mi inebria e mi riporta alla realtà “questo è il mio sogno, la mia maratona, la mia Edimburgo, la storia, le leggende, i fantasmi di un paese meraviglioso, ribelle ed io non me la voglio perdere o sprecare neanche un secondo di questa esperienza tanto attesa, cosa mi sarà mai passato per la testa??”

Riprendo la corsa, con calma, la fine è ancora lontana e i chilometri sono tanti e non voglio scoppiare prima dei 30. Un chilometro alla volta, un miglio alla volta. Mi fermo a mangiare caramelle offerte dai bambini ai bordi della strada, e stringo mani a gente sconosciuta che sento incredibilmente vicina, gente che mi arriva dritta al cuore, gente dalla semplicità disarmante che la domenica mattina esce in strada per tifare sconosciuti che corrono la maratona, non importa se lenti o veloci, rendono omaggio al coraggio e anche solo alla forza di averci almeno provato.

Ai 28 non ne ho più, mi fermo al ristoro e cammino qualche metro, che diventano poi anche due, trecento, ricomincio a correre, mentre guardo con non poca invidia gli altri runners in senso contrario e che sono già sulla strada del ritorno, lunga ancora… e il traguardo sembra così lontano. Arrivo finalmente al giro di boa, il percorso ci porta dentro il parco di Gosford House e sento in lontananza il suono di una cornamusa, ora sì mi sento davvero a casa, parte di un paese che avrei voluto fosse il mio ma che vivo come se lo fosse e, ne sono certa, zio Peter ne sarebbe fiero.

Grazie a lui, lo zio straniero che veniva dall’Inghilterra nel mese di agosto a trovare la famiglia acquisita in Italia, lo zio che ci ospitava nei mesi estivi, lo zio che mi diceva “i mesi migliori per visitare la Scozia sono quelli di maggio e giugno, il resto è pioggia umido e freddo”, lo zio che si alzava sempre in piedi all’ inno nazionale, lo zio che mi ha insegnato ad amare, capire, apprezzare, odiare, vivere, rispettare un paese meraviglioso pieno di contraddizioni e di storia. E mi cade una lacrimuccia di emozione.

Se piango però è la fine, così come a New York mi è capitato di piangere, praticamente per tutta la maratona, se piango non respiro, ansimo e non corro. Molto male.

Esco dal parco e sono di nuovo sul mare, ma questa volta nella corsia giusta, quella che mi conduce al traguardo ed è in salita. Fatico e non poco. Non sento più i polpacci e anche le cosce all’altezza dell’ inguine cominciano a farsi sentire e mancano ancora circa 11 chilometri, metro più metro meno. Non mi passa più.

E sono 32, 33, 34, ok magari cammino per un chilometro e poi riprendo, forse oppure no. Mi fermo bevo, mangio, muovo le braccia e il collo, faccio stretching ai polpacci e passeggio con la mia bottiglia di acqua in mano come una turista in vacanza sul lungomare di Riccione, quando sento il mio nome da dietro. Mi giro e vedo Gianluca e Paola sorridenti che mi corrono incontro. Una visione, un’infusione di positività e di adrenalina che mi da la forza per ricominciare a correre con le gambe di gesso, e il fiatone, ma comunque ricomincio a correre.

Da lì alla fine sono stati i chilometri migliori, quelli delle risate, delle battute, dello scambio di confidenze e delle cose mai dette, delle dichiarazioni che escono dal cuore. Perché la corsa fa soffrire, ma regala legami con persone speciali e fa uscire il meglio che è in noi perché se corri per 40 e rotti chilometri in pantaloncini e maglietta non hai schermi, alibi, secondi fini o filtri. Sei te stesso e chi condivide la tua stessa passione lo capisce.

Cara la mia Edimburgo alla fine ti ho conquistata, ma non come avrei voluto. Resta comunque un conto aperto fra me e te.

Crediti: Edinburgh Marathon Festival