lettera in risposta a roberto saviano sullo sfruttamento della nostra moda

Caro Roberto,

non ti spiace se ti do del tu vero? Sei più giovane di me e credo di poterlo fare anche se non ci conosciamo personalmente.

Ho letto il tuo articolo di stamattina su Repubblica.

E mi pare giusto risponderti, perché in democrazia vale il contraddittorio. Vero?

Bisognerà pur dare un altro punto di vista ai lettori che ti hanno applaudito – in senso metaforico s’intende – sotto all’articolo. Tutti indignati, ma poi in fila da Zara, da H&M, oppure in cerca di affari a buon prezzo.

Perché sai caro Roberto, tanto per essere chiari su di un punto importante: il consumatore finale è quel famoso populista che tanto disdegni e che pretende la qualità assieme al Made in Italy per pochi euro, e quando trova questi prodotti ne va fiero perché è convinto di aver fatto l’affare. E sai dove li vede? Sulle bancarelle dei mercatini, oppure nei negozietti che vendono a poco. Ma non sa che sono prodotti in Italia, spesso a Prato, dai cinesi. Ed è per questo che una camicetta ha un prezzo basso e porta la targhetta Made in Italy.

Questo lo chiariamo come primo punto, anche se non c’entra con il tuo articolo, mi preme partire dall’inizio. Da chi non si può permettere i Brand e compra al mercato.

Va bene certo, ma deve assolutamente conoscere la verità.

Perché è della verità che vuoi parlare, giusto?

Eh dunque parto dal titolo del tuo articolo.

[Quelle fabbriche di invisibili che fanno ricca la nostra moda]

La nostra di chi? Lo sai vero che di nostro non c’è rimasto più niente perché due famosi gruppi francesi hanno acquistato quasi tutto? E se lo ignori ti faccio l’elenco.

Il gruppo LVMH di Bernad Arnault ha al suo attivo storici marchi italiani tipo: LORO PIANA, FENDI, PUCCI, BULGARI, ACQUA DI PARMA e BERLUTI; sono invece del Gruppo KERING di François Pinault marchi come: GUCCI, BOTTEGA VENETA, BRIONI, POMELLATO e DODO; VERSACE è stato acquistato da poco da Micheal Kors e VALENTINO è di Hamad bin Khalifa al-Thani.

Quindi dimmi a quali Maison ti riferisci, perché sono rimasti ancora italiani: GIORGIO ARMANI, FERRAGAMO, PRADA, DOLCE GABBANA, MAX MARA, ALBERTA FERRETTI e DELLA VALLE.

Pochi nevvero? Per essere [l’eccellenza italiana] di cui (s)parli.

Scrivi anche: [… scarpe, abiti, cinture, prodotti dell’alta moda. È una verità italiana. Cos’è la verità italiana?] [La ditta…il cui laboratorio dista venti minuti da Napoli…si occupa di pelletteria rifornendo marchi dell’alta moda.]

(A proposito, correggi [cos’è] dove la è non ha accento ché di sicuro ti è sfuggito).

Sempre caro Roberto, quale sarebbe l’alta moda a cui ti riferisci? Perché gli ultimi marchi italiani che ti ho elencato sopra appartengono alla categoria del PRET A PORTER e L’ALTA MODA è un’altra cosa proprio.

L’Alta Moda è per definire capi sartoriali che costano una fortuna perché sono in esclusiva e spesso realizzati su misura, ma ad essere onesti non li compra più nessuna donna e servono solo per immagine indosso alle attrici sul Red Carpet di Cannes. Quindi dubito fortemente che fossero capi del genere quelli di cui parli nel tuo articolo.

Mi perdoni se ti dico, che hai fatto un po’ di confusione, e visto che sei bravo e pure colto, avresti dovuto essere un po’ più preciso. Un giornalista serio si documenta bene prima di scrivere un articolo. Soprattutto prima di sollevare un polverone del genere.

Altrimenti passa l’informazione che sia alta moda ciò che costa caro, e cioè un pigiama seppur di Dior è un pigiama che serve per andarsene a dormire e non diventa smoking solo perché ha un prezzo esorbitante.

Invece si definisce LUSSO. Che è tutt’altro. E su questo siamo d’accordo. Vero, Roberto?

E per favore non apriamo l’argomento del prezzo = qualità, perché sai anche meglio di me che dietro c’è un piano marketing che dà potere al  brand. Altrimenti come avrebbe detto la mia mamma: “Quella orrenda borsa di plastica marrone che ti porti sempre nei viaggi, non l’avresti comprata”. E si riferiva al mio bauletto di Louis Vuitton.

La realtà che tu descrivi la conosco anch’io, anzi la conoscono tutti gli addetti ai lavori come me. E non faccio i nomi, come non li hai fatti tu del resto.

Ma sei certo che siano italiani, e per di più d’alta moda? Io no.

E comunque questa situazione esiste da anni, da quando ho iniziato il mio primo stage pensa, ed esisteva anche prima di questi fantomatici laboratori. Perché era sfruttamento anche la ricamatrice che lavorava a casa e poi consegnava in quelli definiti atelier e che non esistono più. Anche lei lavorava senza assicurazione, senza ferie pagate e senza contributi. Si potrebbe definire sfruttamento? Credo di si.

Quindi non è che: [Il populismo tace per convenienza].

Perché qui, l’unico populismo è questo.

Quello di parlar male della Moda perché è un argomento che “tira” parecchio,  dove tutti se ne intendono e davanti alle vetrine poi, si sentono stilisti affermati. Ci hai mai fatto caso?

E pochi sanno che siamo al secondo posto come Industria Manifatturiera ma non gliene importa a nessuno, e mai ad alcun governo che è stato, o è, al potere, se non a Renzi quando fu Presidente del Consiglio, che guarda se mi tocca difenderlo!

E mentre a Londra in prima fila alle sfilate c’è seduta anche Sua Maestà Elisabetta II, da noi si parla di Moda solo quando tu fai la scoperta dell’acqua calda, senza offesa eh Roberto, e quando Report mostra un servizio sui piumini perché realizzati con le piume delle oche. Ma pensa!

C’era forse chi credeva che il piumino che ha sul letto fosse ripieno di capelli?

Però quando i brand italiani sono praticamente finiti all’estero non si è indignato nessuno, nemmeno tu, e le sfilate a Milano se continuiamo così si estinguono perché Parigi avrà la meglio, le Fiere del Settore non funzionano quasi più perché i buyers non ci vengono, e c’è il rischio che il Sistema Moda crolli definitivamente.

E poi sì che non ci sarà più nulla da scrivere, nemmeno su [quelle eccellenze italiane] che tu citi per scoop.

Con simpatia

Maria Katia

Fonte foto: Unsplash

Articolo di M.K.D.