Antonio Mancinelli (Ritratto di Giovanni Gastel)

Sono tempi decisamente incerti questi. Sono tempi di Covid-19. Tempi delicati… di confusione… una confusione che è: estrema e totale incertezza.

Ma sono anche tempi di riflessioni e valutazioni, di bilanci, condivisioni umane, che in momenti di tranquilla routine sarebbero stati impossibili.

E il sistema moda con le sue collezioni, i suoi cerimoniali, le sue molto “agitate” fashion week come sta reagendo? 

Anche nell’industria dell’immagine, dello stile, dei trend, della couture, dei front row, dei backstage, dei set con i grandi fotografi e le supermodelle internazionali … anche qua – come in ogni settore – il corona virus ha rotto equilibri, calendari di passerelle, viaggi, movimento, produzione e business senza che per ora ci siano soluzioni chiare, precise e soprattutto rassicuranti.

Antonio Mancinelli vive da tanti anni la moda, la insegna, la scrive, la racconta nei suoi libri osservando e analizzandone la sua anima, sviscerando la realtà dell’immagine, del costume e la sua evoluzione. Il giornalista – Senior Editor di Marie Claire Italia – che  nella sua lunga carriera  ha scritto per diversi periodici e quotidiani tra cui il Corriere Della Sera , Vogue Italia, Elle e per la bellissima testata di nicchia Diario oltre ad essere  visiting professor presso molte università ed Accademie (in Italia e all’estero) come il Politecnico e l’Università Statale di Milano, Domus Academy e IED Milano, Alma Mater Studiorum a Bologna, IUAV a Venezia, Luiss e Accademia Costume & Moda a Roma e Polimoda a Firenze – oggi con questi “chiari di luna” fa quasi un punto della situazione.

Punto della situazione… tra la più incerta situazione… che solo l’esperto di un settore che è una delle voci che incide maggiormente sul bilancio italiano (ovvero quella dello stile) può valutare al meglio. Ho incontrato Antonio Mancinelli questa settimana per Focus On.

Antonio partiamo dalla situazione che tutto il sistema moda sta vivendo in questo momento. Vorrei un suo parere come giornalista, come sociologo, come grande esperto di costume. Che sta succedendo? Purtroppo il sistema moda sta vivendo questo momento drammatico – secondo me – in maniera estremamente confusa. Credo però (e sostengo) che questo settore avesse delle grandi difficoltà già prima che arrivasse il Covid-19. In poche parole il Corona Virus ha solo amplificato e aggravato delle situazioni che già erano esistenti prima della pandemia. Quello che spero è che questo momento così doloroso che stiamo attraversando, possa servire a rimodulare l’intero sistema della moda – che era già ad un punto quasi di non ritorno. Tra i problemi penso per esempio alla sovra-produzione delle collezioni che da quattro all’anno sono poi passate ad essere anche otto… tra uomo, donna, cruise, prefall. Ecco tutto questo ha creato secondo me una sorta di stanchezza, di bulimia, tutti aspetti che erano ripeto presenti già prima dell’arrivo del Covid. In questo momento credo ci sia davvero parecchia confusione per una serie di motivi. Il primo è il fatto che non c’è ancora un accordo neppure tra le case di moda su come muoversi e che cosa fare. Da una parte c’è chi si comporta come se non fosse successo nulla. Dall’altra c’è chi invece annuncia di voler fare solo due appuntamenti all’anno e poi ogni tanto delle piccole drops, chi invece vorrebbe presentare le sue collezioni nei momenti dell’anno che ritiene più opportuni per le sue esigenze.  Devo dire però che credo che il Covid – pur nella sua drammaticità – forse può essere davvero l’occasione giusta per resettare e ripensare un po’ tutto quanto.

Troppe le collezioni quindi. Ma come pensa si evolverà questo “tutto quanto” del quale parla? Io credo che si andrà sempre di più nella direzione di acquistare di meno ma decisamente meglio. Non è un caso che anche il fast-fashion sia in crisi e posso dire che i marchi del lusso con tutto questo gran numero di collezioni all’anno hanno anche attinto dal modo di procedere  della “moda veloce” soprattutto per assecondare certi mercati fatti da una clientela che aveva sempre bisogno di vedere delle novità nei negozi. Come sempre accade a modificare tutto il sistema della moda saranno alla fine i consumatori che sono – già in questo periodo – molto cambiati e non solo dal Covid-19 ma chiaramente anche da tutto quello che sta succedendo nel mondo. E questo cambiamento sta toccando anche coloro che hanno una grande disponibilità economica nel poter spendere. Con questo intendo dire che le esigenze stanno cambiando anche per loro e ripeto credo che si andrà verso un tipo di moda – con il relativo acquisto – meno giocosa e meno legata ai trend del momento. Si andrà più verso l’acquisto di capi basici ma di altissima qualità. E qualità significa durevolezza e anche sostenibilità che è un tema importante e molto presente nel consumatore di oggi.

Che cosa blocca secondo lei, il classico imprenditore italiano che – tranne pochi casi- non riesce a tenere in Italia la proprietà dei nostri marchi? Penso per esempio a Fendi, Versace, Brioni, Gucci… e molti altri tutti in mano ai colossi stranieri del lusso. Faccio una premessa molto importante. Nel senso che desidero sottolineare che pur essendo patriottico e molto legato al nostro artigianato e a tutto ciò che è Made in Italy, non sono così legato invece all’aspetto business della vendita dei marchi. Con questo intendo dire che le case di moda non si vendono da sole ma qualcuno – a suo tempo – a questi signori arrivati dall’estero le avrà vendute. La vera radice di questo modus operandi penso derivi dal fatto che i nostri grandi marchi italiani, hanno quasi tutti origine su aziende a conduzione familiare. A questo punto può accadere che magari dopo due o tre generazioni, la famiglia non riesca a strutturare – in un certo modo – la propria azienda e questo può succedere per diversi motivi: per esempio di tipo economico oppure perché i figli o i nipoti non desiderano portare avanti l’attività creata dal nonno. Oppure può accadere che la genialità del fondatore che ha reso celebre il marchio nel mondo della moda non sia presente invece nei suoi successori… e da ciò ecco la vendita.

Riflessione interessante… Ma non solo. Posso aggiungere che nessuno dei nostri stilisti – se non pochissimi – e questo è un aspetto che mi sta molto a cuore ha pensato di voler formare professionalmente un suo delfino mettendo così le basi per dare un futuro al proprio marchio e alla propria azienda. Io credo che scegliere una sorta di proprio erede stilistico sia una strategia corretta. Ciò che mi lascia invece molto perplesso è quando la proprietà del marchio interviene sul lavoro dello stilista.

Ecco mi ha anticipato la domanda che le avrei fatto. Oggi chi è lo stilista secondo lei? È un mero esecutore che è schiavo del commerciale, delle vendite? Non sempre. Perché ci sono dei bravissimi stilisti che hanno anche un formidabile occhio commerciale. Però con l’arrivo dei colossi del lusso, penso a Kering o a LVMH il ruolo dello stilista negli anni è cambiato. Oggi il fashion designer dona al marchio, la sua filosofia, la sua visione, la sua estetica di come questo secondo lui dovrebbe essere ed evolversi. Oggi il disegnatore di moda è una sorta di regista e l’esempio classico è stato Tom Ford che curava non solo le sue collezioni ma anche tutto l’aspetto visuale del brand ovvero le vetrine e le campagne. Pensiamo anche al lavoro che sta facendo Alessandro Michele con Gucci diventando con il marchio, portavoce non solo di un messaggio stilistico ma anche di un modo di pensare. Con questo intendo dire che oggi quando acquisti un capo compri principalmente la filosofia, l’estetica e il linguaggio che sta dietro a quel marchio. Chiaramente questo modo di fare lo stile oggi deve incastrarsi anche con le esigenze del commerciale che giustamente vuole dei guadagni per l’azienda.

Chi c’è oggi tra i Fashion Designer che secondo lei sta facendo un buon lavoro? C’è sicuramente una nuova generazione di stilisti dei quali secondo me si parla poco ma che sono  bravissimi nel fare il prodotto. Penso per esempio – tra i diversi che ammiro – ad Andrea Incontri, Glenn Martens per Y/Project, oppure ai ragazzi di Act N1, il marchio fondato da Luca Lin e Galib Gassanoff. Ma non sono gli unici. Io condivido in toto ciò che Suzy Menkes – all’epoca ancora all’Herald Tribune – disse  ovvero che facendo una analisi della storia della moda ci si chiede come mai in tempi ormai passati si è permesso ai futuri Dior, Balenciaga di poter realizzare il loro sogno di fondare la loro casa di moda aiutandoli e lasciandoli esprimere al meglio nella loro più totale creatività mentre oggi ogni talento che viene nominato Direttore Creativo di una grande Maison, deve  per forza reinterpretare i codici del marchio o il pezzo d’archivio che ha fatto storia senza invece essere lasciato libero di potersi esprimere totalmente… con il rischio se non si attiene al dna della Maison di essere allontanato dal suo incarico.

A proposito di Direttori Creativi di grandi Maison… Maria Grazia Chiuri le piace? Trovo che Maria Grazia sia molto brava e che stia facendo un lavoro molto interessante anche con questo suo approccio impostato sul femminismo. Ma soprattutto porta avanti un lavoro che ha una sua realtà anche dal punto di vista commerciale.

Passiamo invece al mondo digitale. Che cosa pensa delle influencers, le segue? Non sono contrario al fenomeno delle influencer – anche se non seguo nello specifico nessuna di loro – e penso che queste ragazze siano in qualche modo funzionali al fenomeno e al ruolo che rappresentano. Credo che siano dei veicoli pubblicitari ed usando un termine forte – ma per rendere l’idea – siano praticamente dei manichini viventi. Quello che mi fa riflettere e che penso che anche loro stiano attraversando un momento di grande crisi e credo che nel tempo rimarranno solo quelle che cambieranno con intelligenza, il ritmo della loro narrazione. Penso per esempio a Chiara Ferragni che è un’amica e che ammiro molto e a ciò che sta facendo economicamente in questo periodo di pandemia e come nel periodo di lockdown ha raccontato ai suoi followers la sua vita familiare. Oppure a Paolo Stella che ha pubblicato un libro autobiografico molto profondo e se vogliamo – si tratta della sua vita – anche molto sofferto. Ciò che trovo poco carino è invece quando vedo che alcuni giornalisti si comportano come degli influencer non tenendo conto della deontologia professionale che caratterizza il nostro mestiere e che (tra i vari aspetti) sottolinea di avere un comportamento super partes rispetto ai marchi. 

E le socialité? Sono senz’altro delle testimonial del nostro tempo e delle figure assolutamente rispettabili. Mi chiedo a volte – anche per loro – chi rimarrà tra 20 anni di queste persone. Ripeto … ciò che conta alla lunga è come si riesce a cambiare il ritmo della propria narrazione in parallelo con la società che si evolve. Io rimango sempre molto colpito come ancora oggi dopo tanti anni, le ragazzine continuano ad avere (e a volere) per esempio il poster di Colazione da Tiffany nella loro stanza…. e questo dice tanto sull’importanza di cambiare se stessi nel tempo. E questo sottolineo non è semplice soprattutto di questi tempi dove tutto – trend compresi – passano con una velocità incredibile.

Invece ha ancora senso oggi fare l’Alta Moda? L’alta moda – a prescindere dalla vendita- ha un valore culturale molto alto e permette anche la trasmissione di saperi che altrimenti andrebbero persi. Nello specifico sto pensando a tutte le sarte di Valentino che sono le migliori al mondo o alle varie ricamatrici di Ittiri un paesino della Sardegna dove queste donne dal talento incredibile lavorano. C’è quindi un discorso prettamente culturale che alla fine – anche se vengono acquistati solo pochissimi abiti – conta più della vendita stessa. Un altro aspetto al quale penso è invece anche ad una diversa forma di Alta Moda che è legata più alla costruzione di un sogno, di una visione libera finalmente dall’esigenze del commerciale. Ma non solo. Penso anche ad un’Alta Moda dall’accezione più ampia…perché ci sono per esempio delle collezioni di Alexander McQueen o di Victor & Rolf che non saprei davvero come definirle se di Ready-To-Wear o di Alta Moda vista la bellezza dei ricami e il forte legame con l’arte. In poche parole trovo che se viene fatta con un occhio moderno l’haute couture diventa un interessante laboratorio di sperimentazione.

Di tutto il cerimoniale della Moda invece che pensa? Intendo tutto il giro delle prime, seconde e terze file alle sfilate? Spero che questo rituale salti finalmente per aria perché tutto ciò credo abbia avuto un senso a suo tempo. Per esempio quando ho iniziato a fare questo lavoro c’era un accesso alle notizie riguardanti la moda che era soltanto riferito ai giornalisti dei quotidiani e delle riviste specializzate. E stiamo parlando di un’epoca dove non c’era internet, il web non esisteva e perciò tutto questo rituale in qualche modo serviva solo per poter far vedere al meglio ai giornalisti e ai compratori il lavoro degli stilisti. Ecco io credo che oggi questo “dannarsi” per la prima o la seconda fila o l’invito alla sfilata che non ti è arrivato sia obsoleto anche perché dopo mezz’ora chiunque trova le immagini dello show “on line” oltretutto anche arricchite dai close up sui dettagli degli abiti. Sicuramente c’è una differenza tra l’esserci fisicamente e vederle in streaming però adesso post-covid vedremo che cosa accadrà. Ci sarà credo un nuovo linguaggio ed una nuova organizzazione attraverso i video o altro… vedremo.

E del fenomeno Top Model che ne pensa? Il paradosso è che – a differenza degli anni 90 quando queste donne bellissime erano mute in pedana – le top model di oggi che incarnano lo spirito dei tempi (oltretutto avendo queste anche un confronto più diretto con i loro followers) siano molto poche. Forse adesso qualcuna c’è penso a Adut Akech oppure a Bianca Balti o a Mariacarla Boscono che è stata davvero parte integrante del processo creativo di Riccardo Tisci. Le modelle di oggi hanno senz’altro più opportunità per far sentire la loro voce ma essendoci un grande ricambio sono anche loro sottoposte al meccanismo di una notorietà che in quel momento le “colpisce” ma dopo un anno le abbandona e le sostituisce. E non è un caso che nelle ultime sfilate abbiamo visto tante supermodelle degli anni 90. Naomi Campbell ancora adesso che ha 50 anni fa qualche sfilata.

Anche Stella Tennant o Erin O’ Connor o Karen Elson… Meravigliose … ma ripeto sono donne che incarnavano lo spirito di uno stile e tra la presenza, il loro movimento in pedana contribuivano all’affermarsi di un marchio.

Che ricordo ha di Anna Piaggi? Sono stato molto amico di Anna Piaggi che era una persona meravigliosa e aveva una grande cultura della moda oltretutto espressa in maniera estremamente fresca. Lei era in grado di indossare dei capi che magari tu trovavi poco abbinabili ma che su di lei stavano benissimo. Ricordo che una delle ultime volte che ci siamo visti – andavamo assieme ad una sfilata – le chiesi come pensava di vestirsi in quella occasione e lei mi rispose: “da musica”.  E quando ci incontrammo lei aveva una gonna bellissima con degli spartiti musicali applicati, era meravigliosa. Ecco questa cultura oggi manca. Anna inoltre aveva una voce bellissima ed era una donna di grande gentilezza e questo suo modo di vestire, era quasi un atto di performance. Ho imparato moltissimo da lei.

Un’ ultima domanda. In tempi di crisi… anche dell’editoria. Che fine farà la carta stampata? Direi che i magazines cartacei (purtroppo) saranno con cadenza trimestrale o quadrimestrale e credo che andremo incontro però sempre di più a quello che già da qualche tempo si sta profilando, ovvero lo svilupparsi di riviste meravigliose con delle fotografie stupende e degli articoli talmente unici e perfetti che la gente avrà voglia di collezionarle. Si rafforzerà invece sempre di più l’aspetto digitale e i lettori troveranno “on line” le super notizie quotidiane ma poi andranno in edicola ad acquistare questi magazines incredibili. Posso solo dire che a prescindere da come si evolverà il tutto, ciò che amo è scrivere ma soprattutto c’è un sentimento che non mi appartiene: la nostalgia.

Fonte foto: Antonio Mancinelli

Crediti foto: Giovanni Gastel