marco beretta fotografo

Si parte iniziando a scorrere le pagine dove Marco Beretta, viaggiatore, fotografo e molto altro, ha riunito gli scatti realizzati nei monasteri buddhisti fra Birmania e Laos negli ultimi venti anni.

L’occasione è la presentazione dell’omonimo libro fotografico che si terrà martedì 4 giugno alle 19 presso Stamberga Art Photography, nel distretto liberty di Porta Venezia e nell’ambito di Milano Photo Week.

L’impressione è che le coordinate consuete non siano necessarie e, soprattutto, non siano lo strumento utile per percepire la densa umanità dei monaci ritratti, il cui spiritus ha un elemento di universalità pur nell’assoluta differenza di uno spazio e di un tempo indubbiamente altri. Di distanze e incontri, con o senza un obiettivo in mezzo, abbiamo parlato con Marco Beretta, che qui ci racconta come si fa a dare corpo a un’idea.

Incorporeus
Incorporeus

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Perché hai scelto di fotografare monaci buddhisti all’interno dei loro templi? Che incontro è stato? All’inizio questa scelta era inconsapevole. Accade nel corso del primo viaggio a Kathmandu in Nepal, fine anni ‘90, quando il mio obiettivo si posa quasi per caso su una ruota di preghiera buddhista fatta scorrere da un vecchio monaco. Quell’immagine ha finito con il condizionare e ispirare la mia ricerca di corpi in movimento. Sono entrato per la prima volta in un monastero buddhista e mi sono imbattuto nei monaci; un incontro che mi ha segnato in maniera indelebile. Da allora e da oltre 20 anni scatto nel silenzio di monasteri remoti con la mia vecchia Hasselblad e il soggetto delle immagini sono unicamente i monaci buddisti, i loro simboli, i luoghi sacri e i momenti di preghiera. Poi la lettura di un libro mi ha trasportato nell’atmosfera incantata del Tibet profondo, “Il terzo occhio” di Lobsang Rampa, monaco che possiede l’eccezionale facoltà divinatoria di percepire realtà spirituali quali le aure che circondano ogni individuo. Da quel momento tutto diventa consapevole e il corpo di lavoro prende forma e un nome: SPIRITUS. Il significato letterale di Spiritus in latino è “respiro leggero”, come quello della meditazione. Spiritus è la necessità di visualizzare una ricerca silenziosa, uno stato di calma interiore, d’esplorazione della quiete. Ne ho fatto il mio unico corpo di lavoro e mi sono dedicato esclusivamente a questo progetto fine-art: “la ricerca di una fotografia spirituale”. 

Devotus
Devotus

Quale relazione fra movimento, trasformazione e contemplazione vuoi raccontare attraverso i tuoi scatti? SPIRITUS indica anche uno spirito in senso figurato, e spirito indica generalmente “l’essenza metafisica dello spazio non eterna e ubiqua dimorante all’interno dell’uomo.” Spiritus vuole quindi essere uno sguardo interiore al mondo immateriale che ci circonda. Da qui la necessità di catturarne l’essenza e quindi di fotografare il movimento, visualizzare la trasformazione. Le immagini che ne escono non sono quasi mai statiche: il movimento è parte stessa del significato. Ogni foto è infatti sbilanciamento, metamorfosi. L’intento non è affatto narrativo, ma piuttosto contemplativo. Lontano da ogni logica di reportage, gli scatti non raccontano ma osservano e fissano il fluire delle forme catturando oltre la soglia del razionale. Il tentativo è quello di trasferire il magnetismo di ogni gesto, degli sguardi, di ogni singola azione quotidiana. Le mie immagini alludono alla forza interiore del pensiero, all’intensità della meditazione, al significato della ripetizione rituale dei gesti che il bianconero nella sua capacità evocativa rende ancora più affascinanti. Il bianco e nero per sua natura si distanzia dalla realtà e l’assenza del colore lascia maggiore spazio all’interpretazione.

EVANESCENTIS
Evanescentis

All’apparenza queste sono fotografie di una immediatezza lineare, cerco di cogliere i gesti e i movimenti dei monaci buddisti nelle loro vesti di colore rosso ocra, arancio e giallo, ma spesso chi le osserva solo alla fine realizza che non sono a colori. Ogni immagine è frutto di scoperta, di pensiero, di progetto. È contemplazione.

Quanta distanza, o quanta vicinanza, vedi fra l’umanità ritratta nelle tue fotografie e la nostra di cittadini occidentali? Qui vivo un paradosso. Le mie fotografie sono molto intime, non mi apposto ma scatto a distanza ravvicinatissima con ottiche semplici. Necessariamente devo stare vicino ai miei soggetti, sia in senso letterale che in termini di pensiero.

Spiritus
Spiritus

Coinvolgo e vengo a mia volta coinvolto. Le lunghe e silenziose permanenze all’interno dei monasteri, la condivisione dei ritmi di vita quotidiani, la suggestiva partecipazione ai “puja” mi permettono di catturare lo spirito, l’essenza dei miei soggetti fotografici. Insieme ai monaci buddhisti mi sento in una sorta di esilio spirituale e l’ispirazione per le fotografie viene spontanea. Guardi la foto e questa energia ti cattura, ti ingloba, ti fa entrare, al di là della soglia razionale. I monaci meditano e tu mediti. Loro camminano e tu cammini. Accendono un lume e tu ne vedi il bagliore e senti il profumo dell’incenso. In ogni scatto c’è la potenza della preghiera, della meditazione e i rituali del quotidiano. Ora gioia, ora sgomento: i monaci appaiono trasfigurazioni di sé. Ciò che ne esce portentoso è lo spirito che anima e trasfigura. Alla fine però vedo distanza più che vicinanza. Il cliché occidentale è così lontano dalla realtà, il nostro bisogno di calma interiore, la ricerca illusoria del Santo Graal non ci consente di comprenderne la semplicità.

Fonte foto: Marco Beretta