randonnée

Un po’ come Sylvain Chavanel, l’uomo della fuga in solitaria. Dall’inizio della seconda tappa del Tour de France fino ad una manciata di km, mi pare 13, al traguardo. Quando è stato inesorabilmente ripreso dal gruppo, pronto a lanciare i suoi velocisti all’attacco degli ultimi cm, da bruciare come sempre con il colpo di reni di Peter Sagan.

Così mi sembrava di rivedermi domenica mattina. Nella mia lunga pedalata in solitaria alla ricerca dello stesso giro tra i Navigli fatto in una radiosa giornata di febbraio. Sì, la Randonnèe dei Navigli sarebbe stata la mia meta e questa volta avrei acceso il computerino da casa, per registrare bene ogni singolo metro. Più di 100 km oh sì. Senza nessun timore ormai.

Il ponte di barche sul Ticino a Bereguardo

Dopo tanti giri in gruppo e con l’esperienza del velodromo dove ho imparato a stare in scia godendo della velocità altrui, ma riuscendo anche a tirare io per un giro intero a 40 km/h, ecco che alla vigilia del week end mi viene improvvisamente l’ideona di riprovare a fare quelle lunghe cavalcate solitarie che hanno visto, poco più di un paio d’anni fa, quando non sapevo ancora cosa fosse il carbonio, il mio debutto sulle piste ciclabili. Chissà quanti si sono avvicinati al ciclismo come me. Una vecchia bicicletta abbandonata in cantina da sistemare (prendendoci gusto in ciclofficina), un passaggio all’acciaio vintage da corsa, e poi, complici gli amici del Velodromo Parco Nord, l’opportunità di un “usato sicuro” in carbonio, una bici da corsa moderna, proprio della mia taglia. Questo il mio iter. E di lì percorsi sempre più lunghi, come la rondine che impara a volare e pian piano si stacca dal nido, con sempre meno paura di farcela a tornare a casa.

Così, grazie al mal tempo della settimana che ha riempito l’invaso del velodromo d’acqua impedendone l’apertura, eccomi innestare la tacchetta sotto casa con l’idea di spingere forte per almeno 4 ore. Fino alla Certosa, magari fino a Pavia. Ma la bellezza della città estiva del mattino ancora immersa nei sogni? Non c’è nessuno e allora sì, spingo sui pedali in uno dei segmenti preferiti di Strava, dalla parti di Corso Vercelli. Il Qom è già mio, ma voglio provare a battermi. Le gambe frullano. Ho scelto sì il rapportone, ma non tanto da impedire una bella accelerata con il sedere ben piantato sulla sella. Di più, di più. Il Garmin mi farebbe vedere la velocità, ma preferisco tenere d’occhio se qualche pirla non rispetta la precedenza. Così arrivo alla curva-traguardo e… la solita musichetta da giochino elettronico anni ’80 che segna il finale mi fa pensare di non avercela fatta. Sorpresa! Appare sullo schermo una bella corona! Qom, alè. Mai lo avevo ancora visto in diretta. È una bella carica. Mi sento come il Sylvain che avrei conosciuto poco più tardi, dal divano di casa. In grado di fare qualsiasi cosa.

In solitaria si scattano selfie a go-go

E in effetti quando si è soli è forse più facile, per certi versi, ottenere risultati.

In gruppo godi dell’aria tagliata, ma non decidi tu quando scattare. Da solo hai l’onere e l’onore della corsa, ma al tuo ritmo. Quindi nessuno può tirarti il collo o incitarti ad andare più veloce quando non ne hai voglia. Il ciclismo è prima di tutto uno sport che si nutre di visioni interiori e quindi a volte, almeno nel mio caso, i sentimenti non collimano con quelli degli altri. E allora è come provare a recitare una poesia mentre si è in discoteca. Ehi abbassate il volume, state un po’ zitti che non mi ricordo la seconda strofa del Coro degli Adelchi, dagli atri muscosi e dai fori cadenti…
Quando sei da solo invece puoi recitare il rosario, cantarti in testa tutta la seconda sinfonia di Mahler – anche se per pedalare sono meglio Beethoven e Brahms, nelle sue partiture più “eroiche” – oppure ramificare pensieri raggiungendo vette di filosofia pura. E il bello è che nessuno controlla, né le nuove tesi scoperte, né la tua velocità. Ne è convinto anche Roberto. Pedalare libera la testa. Mi racconta della sua mattina, non aveva proprio voglia di stare in azienda. “Ragazzi, sapete che c’è? Oggi vado a farmi un giro“. “Ma come, al lavoro di domenica?” “Eh sì, chi ha un’azienda agricola d’estate lavora sempre“. Così tra coltivazioni di mirtilli e bacche di goji, nuove frontiere della filiera corta che scopro lambiscono proprio Gaggiano, il mio traguardo preferito in pausa pranzo, è bello scambiare due chiacchiere e dividersi un po’ la scia con compagni di viaggio occasionali.

La “giungla” sul Ticino nei pressi di Zerbolò

Prima di Zerbolò, arrivando da Pavia dove rocambolescamente, tra mille pavè e ciottoli semipedonali, invasi dalla folla della domenica, avevo rintracciato il ponte vecchio, mi ero guadagnata la via tra i campi ormai alti, servendomi del mio innato senso dell’orientamento. Semplice, basta risalire il Ticino che da lontano, immerso nella giungla estiva, sembra quasi un Rio delle Amazzoni. Ma non avrei mai scovato lo strappetto di S. Biagio a cui mi invita Andrea. Uno veloce che mi fa segno di attaccarmi pure alla sua ruota, se voglio. È bello il gesto del ciclista che invita. Una manata che accompagna l’aria dietro alla propria schiena. “Grazie, ok!“. Sarà qui, su una strana salita immersa nel nulla piatto delle risaie, che per inseguirlo agguanterò un po’ di belle coppette su Strava. Peccato che Andrea non sia sul social number one dei ciclisti. Ma le pedalate solitarie sono belle anche per questo. Scambi parole a 32/33 km/h con perfetti sconosciuti che ti sembra di conoscere da anni. E sai già che rincontrarsi di nuovo è un po’ come pensare di trovare un ago – ancora più difficile – in una risaia.

Risalendo il Ticino da Pavia in su, sono veramente stupita di come le gambe girino allegre e leggere.

Incredibile il confronto con febbraio. Allora in certe tratte arrivarono le provvidenziali spintarelle di Iryna Bukhanska. Con l’aria dura dell’inverno, a metà percorso della rando, quel morbido 2/3% di salita sembrava quasi un Lissolo. Oggi no… tutto scorre velocissimo, non ci credo. Quasi sembra di avere Armando che taglia l’aria.

Mi fermo a Zerbolò, da Pasquale. La mia trattoria preferita della zona. Ad attendermi non c’è la bollente panada che la Sciüra Rachele aveva tirato fuori come un asso culinario per ristorare i randonneur, ma un mezza minerale ghiacciata che mischio in borraccia con quel goccio di acqua e maltodestrina che ormai hanno raggiunto la temperatura del tè.

La trattoria preferita, da Pasquale. Al centro la proprietaria, Signora Rachele, con una delle sue figlie. Degne eredi di papà/nonno Pasquale! A destra le bottine, specialità della casa, ovvero pesciolini fritti

Inforco la bicicletta e via. Il senso di libertà è totale. Sono nel punto più lontano da casa e sento che potrei pedalare all’infinito, come un monaco shaolin, senza alcun bisogno terreno. Negli occhi le risaie e la lunga striscia d’asfalto deserta. Tutti qui sono ormai apparecchiati in riva al Ticino ad attizzare la carbonella.

Non sono neppure a Gaggiano e ho già segnato sulla carlinga dell’aereo i primi 100 km abbattuti quasi d’un fiato. A più riprese sono tentata di superare Abbiategrasso e di volare più su, verso Robecco sul Naviglio e Boffalora. Ma il tempo è tiranno e devo rientrare. Più tardi, in piena città, in zona Pagano, strapperò un secondo Qom sempre a me stessa. Con più di 100 km nelle gambe. Alé. Rando solitaria, per battere la ciclista che ero e incoronare quella che sarò.