Fare un salto nel passato con la consapevolezza che tutto ciò, un domani lontano, non ci sarà più. Sonja Tagliavini però non ci sta, e cerca di tramandare il suo mestiere. Lei è una stilista vecchio stampo, perché prima ancora di disegnare nuove e uniche collezioni, le immagina fatte, create, cucite.

Non c’è spazio per le fantasie invendibili. L’arte è arte, con tutto il rispetto, e possiamo anche non capirla. La moda invece va toccata con mano, diventa la nostra seconda pelle e non è detto che proprio per questo si avvicini all’arte, soprattutto se il tutto è fatto come una volta. Come succede a La Cucitoria, dove dai bottoni alle cuciture, fino ai materiali – unici, introvabili, magici – delle fodere, che rendono esclusivo il capo realizzato, vengono realizzati a mano. Una bottega delle meraviglie, una sartoria artigianale, un negozio che ti avvolge nella sua storia.

Com’è nata la sua passione per la moda? Da quando avevo 24-25 anni, da quando sono entrata per caso nel laboratorio di una vecchia magliaia. Ricordo di esser stata molto colpita da questo mondo che in qualche modo sentivo già vicino. Ricordo come fosse ieri, c’erano tantissime macchine in funzione e tutte queste donne all’opera, concentratissime con il loro camice bianco.

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E come è diventato un lavoro? Quasi per gioco, quando ho chiesto alla titolare di questo laboratorio di maglieria di realizzare il campione di un golf in cashmere – un materiale che amo moltissimo – che avevo disegnato. Da lì è partito tutto. Ho contattato Siniscalchi, un produttore di camicie che aveva un bellissimo negozio in Via Montenapoleone, per chiedergli un parere sulla mia creazione. Ricordo che lui rimase subito affascinato. Mi disse che la mano era stupenda e che la lana era di ottima qualità, e mi propose di far realizzare un suo campione e mi commissionò un primo piccolo ordine.

E dopo cosa è successo? Ho portato questo campione alle mie fidatissime sarte e l’abbiamo analizzato assieme, studiato nei minimi dettagli e poi realizzato 20 campioni. Siniscalchi rimase così felice che dopo qualche giorno mi chiamò per farmi incontrare una persona. Un certo Cerruti che si complimentò per i golf che avevo venduto a Siniscalchi e mi propose di distribuirli in tutti i suoi negozi, commissionandone 10 mila campioni. Ovviamente accettati e realizzati questi golf, che una volta nei negozi ebbero moltissimo successo.

Dopo questo importante incontro com’è evoluta la sua carriera? L’incontro prima con Siniscalchi e poi con Cerruti ha segnato il mio vero inizio. Dopo ho cominciato a realizzare altri golf, cercando di capire i gusti dei clienti, cercando di rubare tutti i trucchi del mestiere alle magliaie del laboratorio. Per me si stava aprendo un mondo nuovo che non conoscevo, e quasi senza accorgermene avevo realizzato la mia prima collezione, realizzando anche pantaloni, gonne e vestitini.

Come si entrava nel fashion system dell’inizio anni ’70 italiano? All’epoca c’era ancora Milano Vende Moda – una fiera di abbigliamento per la vendita diretta – dove presentavo le mie collezioni che venivano poi vendute direttamente ai negozi, in Italia e all’estero. Ho realizzato anche diverse esposizioni, ma dopo qualche tempo ho capito che non volevo più lavorare sulla quantità, ma sulla qualità, proprio in concomitanza con l’arrivo dei primi monomarca, che ha portato al calo delle commesse, perché chiaramente negozi come Armani e Albini facevano una grande concorrenza ai negozi multibrand, che erano i miei primi clienti.

Qual è stata la chiave di svolta? L’apertura del mio negozio in Via Disciplini, dove poter creare pezzi unici per le mie amiche. Ovviamente essendo un piccolo negozietto, in una via dove c’è poco passaggio, ha giocato un ruolo chiave il passaparola. Oggi ho clienti anche da Montecarlo e dagli Stati Uniti.

Chi è il cliente de “La Cucitoria”? Un cliente che si fida di me e che entra in negozio anche per chiedere consigli di stile, e insieme costruiamo un nuovo capo, oppure realizziamo il loro modello. Le mie creazioni sono sempre uniche. È rarissimo che io faccia due capi uguali, perché le persone sono tutte diverse. A volte lavorando faccia a faccia con i clienti, entri in intimità con loro e diventi quasi una confidente, perché non può nasconderti un difetto fisico, deve “mettersi a nudo”.

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Come si crea un capo unico? Faccio una ricerca molto accurata dei tessuti, che spesso scelgo durante i miei viaggi, quindi anche quando due capi sono simili, ci saranno sempre dei dettagli differenti, come può essere la fodera interna, e cercando tessuti particolari in giro per il mondo, poi è praticamente impossibile fare un riassortimento dello stesso tessuto, quindi ogni capo resta davvero unico.

Facciamo un passo indietro: se quel giorno non fosse entrata in quel laboratorio, oggi chi sarebbe Sonja Tagliavini? Avrei comunque lavorato nell’ambito dell’ abbigliamento. All’epoca avevo appena finito la scuola di interpreti, e avevo anche cominciato a lavorare traducendo libri e contratti per le Messaggerie Musicali, anche se questo lavoro non mi dava la stessa soddisfazione del creare a mano. Quando sono entrata in quel laboratorio è scattato l’innamoramento, ma ero già molto affascinata da questo mondo artigianale.

Quanto è importante l’aspetto artigianale del suo lavoro? Un aspetto fondamentale, perché realizziamo capi che si possono creare unicamente a mano. Capisco che poi il prezzo finale sarà più caro, ma la qualità è davvero di altissimo livello. Nulla viene lasciato al caso, dalle asole e i bottoni cuciti a mano, fino alla tintura degli stessi bottoni, uno per uno, con lo stesso colore dell’abito. Un mestiere che tra l’altro sta sparendo…

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Cosa si può tramandare questi mestieri? Parlo ogni giorno con le istituzioni per cercare di insegnare questi mestieri che fanno parte del nostro patrimonio. Oggi nelle scuole di moda ti insegnano lo stilismo, ma nessuno, tranne in pochi casi, ti insegna la sartoria, mentre c’è moltissima domanda, perché oggi giorno è difficilissimo trovare una brava sarta. Io devo sempre sperare che qualche vecchia sartoria chiuda per “rubarle” le sarte…

Come vede il futuro della moda italiana? La vedo fatta in Cina, come già stanno facendo. E vedo che i negozi, non solo quelli di sartoria, ma quelli di artigianato, stanno pian piano sparendo.

Come si rilassa? Viaggiando. Quando parto, porto con me una valigia piena di cose da lasciare sul posto, fino a quando la valigia si svuota, per poi riempirsi nuovamente di tessuti. Sono innamorata dell’India. Una poesia, un mondo a parte, la gente è particolare… può essere dolce e durissima. Il tramonto può essere con dei colori fortissimi o sfumati, qualsiasi posto tu vada è diverso dall’altro. C’è il ricco ma non sfacciatamente ricco, il povero che però ce la fa, che vive tra le montagne e con le sue mucche. C’è la povertà e la ricchezza, e poi tanti colori indescrivibili, che si possono fotografare solo con gli occhi.

Il prossimo viaggio? India! Anche se amo moltissimo anche l’Africa, dove abita mio figlio. Un paese dove la gente è dolcissima e dove è impossibile non trovare ispirazioni.

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Lei crede nell’unire i puntini? Moda, viaggi e….? Che tassello manca? Forse la musica, anzi sicuramente. La musica influisce sul mio lavoro, perché riesce a farmi assentare dal mondo e mi concentro sul lavoro. Accendo la mia musica – da Bach a Beethoven – e comincio a creare.

Che consiglio si sente di dare a chi sta cominciando un percorso nel settore della sartoria? Di non lasciarlo perdere, di andare avanti. Di non lasciarsi demoralizzare. Io a volte lavoro fino a mezzanotte. Di entrare in sintonia con il cliente, conoscerlo. Parlare per capire cosa creare.