A cura di Fulvio Aniello

Photo by Stefano Triulzi

Photo by Stefano Triulzi

Potrà sembrare banale come domanda, ma cosa ti piace della moda? In primis leggere negli abiti tante cose, che vanno ben al di là del semplice capo, ritrovarci ispirazioni, citazioni, mondi, connessioni. La moda raccoglie input e li rielabora e questo processo mi affascina tantissimo. Ho ricordi bellissimi di interviste fatte a personaggi che mi raccontavano esperienze profonde, intellettualmente stimolanti. Poi amo la fotografia di moda, i servizi, sono innamorato della macchina fotografica e di come si possano creare con essa dei mondi paralleli. Nella moda lavorano creativi abilissimi, capaci di visualizzare sceneggiature memorabili. Penso a Gianni Versace, penso a John Galliano, penso a McQueen, ma solo per citarne alcuni. Mi affascina anche lo ‘spettacolo’ moda, la sfilata per me è un momento magico, mi emoziono sempre quando si spengono le luci e parte la musica. La moda è racconto, comunicazione e i mezzi che usa suscitano su di me molta fascinazione.

Quando hai cominciato a capire che avresti lavorato in questo mondo? In realtà non l’ho mica ancora capito! Partiamo dal fatto che io mi sento un po’ un outsider della moda, ho sempre lavorato per giornali indipendenti (prima come fashion director per L@bel, ora come caporedattore moda di Madews) con incursioni nel mainstream che però sono sempre state limitate,  quindi ho sempre pensato di avere una riconoscibilità molto più bassa rispetto ad altri che lavorano in questo ambiente. Non vivo a Milano, quindi non sono un presenzialista, uno che è a tutti gli eventi e si fa vedere ovunque. Ci sono periodi in cui sono più presente, altri in cui non ci sono, questo è un grande difetto in un ambiente dove se non ti vedono non si ricordano di te. Quindi pur lavorando, e anche tanto, in questo settore, non sempre mi sento di farne parte, sarà la mia visione provinciale, che mi spinge a guardarlo a volte da lontano…All’inizio questo lavoro era una mia passione, che ho sempre affrontato con molta serietà,  ora la dimensione del lavoro, le responsabilità, lo hanno reso sicuramente una professione, ma una parte di me lo considera ancora la passione di Stefano. E questo a volte è un bene, a volte è un male. Warhol nei suoi “Diari” veniva dipinto come un personaggio che nonostante tutto quello che aveva fatto, se incontrava anche il più sconosciuto attore di soap opera si girava verso la sua segretaria per dirgli che era incredibile trovarsi nella stanza con un personaggio così famoso. Io sono ben lontano dall’essere importante come Warhol, ma mi sento molto così. Dentro sono lo Stefano con le foto delle supermodel appese alle pareti…

Che percorso formativo hai scelto? E perchè? Non ho studiato moda. Sono laureato in medicina e chirurgia e specializzato in psicoterapia. La moda era la mia valvola di sfogo, il mio volo pindarico, il sogno. Da ragazzino scappavo da Lugo per venire a Milano a fare le foto alle modelle e a cercare di intrufolarmi  alle sfilate. La mia formazione è avvenuta sui giornali, che non leggevo, ma imparavo a memoria e grazie alla grande curiosità. In un’epoca dove il pc non c’era io funzionavo come i link dei siti di oggi, leggevo che i miei miti Duran Duran erano andati a cena con Warhol e dovevo scoprire chi era questo Warhol, leggevo che Miguel Bosè (che da bambino adoravo) era vestito Versace e dovevo sapere tutto di Versace e così via. Poi mi innamorai delle top model di fine anni ottanta e inizi anni novanta e compravo tutto su di loro.  Insomma mi ha forgiato la passione, ho imparato tutto da solo…e sto imparando anche ora, penso di avere tantissime lacune, faccio sempre ricerca e non sto mai fermo…